Mario Tchou, l’ingegnere che accese il cervello dell’Italia e fu spento troppo presto
C’è un nome che troppo spesso rimane in ombra quando si racconta l’epopea Olivetti: Mario Tchou. Italo-cinese, classe 1924, genio dell’elettronica formato tra Roma e New York, nel 1955 viene chiamato da Adriano Olivetti per realizzare un sogno: creare il primo calcolatore elettronico italiano. Nasce così il laboratorio di Barbaricina, vicino Pisa — un luogo che, molto prima della Silicon Valley, già profumava di futuro. Non uffici grigi, ma open space pieni di energia creativa, dove brillavano giovani menti come Pier Giorgio Perotto e Giuseppe Cecchini. Tchou non costruiva solo macchine: costruiva una cultura.
Nel 1959 il team presenta l’Elea 9003, un capolavoro di elettronica. Niente valvole, tutto a transistor. Velocissimo, modulare, con un design firmato Ettore Sottsass. Un computer più avanzato dell’IBM 1401 uscito solo l’anno dopo. In Italia, si produceva il meglio. E nessuno ci credeva.
Ma il progetto Elea era solo il vertice visibile di un iceberg. Tchou promosse l’intera serie Elea (Elaboratore Elettronico Aritmetico): il prototipo 9001, il modello 9002 con valvole termoioniche, il 9003 tutto a transistor e infine il 9004, un sistema pensato per reti distribuite, dove i terminali remoti erano già connessi all’elaboratore centrale: una visione anticipatoria del cloud computing. La logica sequenziale, i circuiti con memoria a nuclei di ferrite e l’introduzione del concetto di “interfaccia uomo-macchina” erano innovazioni radicali.
Tchou supervisionò anche la realizzazione del software di base, collaborando con i giovani scienziati dell’Università di Pisa e Milano, e introdusse le prime riflessioni italiane su cosa significasse programmare, automatizzare, simulare. Oltre alla macchina, si stava creando una lingua del futuro.
Lui però non era solo un ingegnere. Era un visionario umanista. Nei suoi laboratori si leggeva Dante, si parlava di etica, si coltivava una visione: “La macchina deve servire l’uomo, non dominarlo”. Una frase che oggi sembrerebbe uscita da un manifesto etico sull’Intelligenza Artificiale. Lui lo diceva nel 1958. Mentre l’America produceva in massa, l’Italia — grazie a Tchou — pensava, rifletteva, osava.
Ma il sogno durò poco. Nel novembre 1961 Tchou muore in un incidente stradale sulla Torino-Milano. Qualche mese prima era morto anche Adriano Olivetti. Due incidenti, due “fatalità” ravvicinate. Troppo ravvicinate, diranno in molti. E infatti da lì in poi tutto cambia: il settore elettronico Olivetti viene venduto alla General Electric nel 1964. Una resa, presentata come “strategica”, che in realtà segnò la fine di una possibilità. Quella di un’Italia leader nell’innovazione. Un’Italia che brevettava tastiere, progettava computer personali, anticipava i tempi. Un’Italia che poteva diventare la Apple d’Europa — e invece scelse la subfornitura.
Oggi chi ricorda Mario Tchou? Nei libri scolastici è un’annotazione a margine. Ma se fosse stato americano, oggi avremmo campus, musei, startup con il suo nome. Lo avremmo visto nei documentari accanto a Jobs, Turing e von Neumann. Invece l’abbiamo dimenticato. Per questo oggi ricordarlo è un atto politico. Significa affermare che un’altra Italia è stata possibile — e può ancora esserlo. Ma non accadrà se continueremo a uccidere i visionari prima che i loro progetti siano realizzati.
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