Il capo della Polizia: “Perché le Telco collaborano e le piattaforme digitali no?”. Il commento di Mezza
Se lo Stato si identifica con il potere di proclamare lo stato di emergenza, come codificò il padre della sovranità statuale Carl Schmitt, allora nella società digitale bisogna rivedere i confini fra indipedenza e colonialismo nazionale.
Un esempio concreto lo ha , con grande lucidità e pragmaticità, proposto il capo della polizia Vittorio Pisani nel suo intervento al festival dell’economia a Trento, dove ha chiesto che ai grandi service provider digitali, che intermediano e classificano ogni nostro comportamento, sia applicata la stessa regola che costringe le compagnie telefoniche a collaborare con le autorità di polizia del paese in cui operano.
Mentre le telecomunicazioni tradizionali sono soggette a obblighi di legge (conservazione dati, fornitura di prestazioni obbligatorie come le intercettazioni su richiesta dell’autorità giudiziaria, identificazione del titolare Sim)– ha spiegato il prefetto Pisani – per i servizi digitali manca una regolamentazione analoga. Non vi è un obbligo per questi provider di conservare dati sull’identità reale degli utenti o di fornire accesso alle comunicazioni criptate, nemmeno in casi di reati gravissimi.
Pisani ha poi evidenziato come, ad esempio, in Italia non sia possibile nemmeno testare tecnologie per intercettare comunicazioni su piattaforme come Telegram per reati come la pedopornografia, a differenza di altri Paesi.
Al momento Apple e Google, proprietari dei sistemi operativi che gestiscono più del 95% dei terminali mobili attivi in Italia non sono minimamente sottoposti alle norme giudiziarie italiane. Così come Facebook o Tik Tok e Huawei, o ancora Amazon o OpenAI, il proprietario di ChatGPT.
Mentre paradossalmente i server dove sono depositati i dati delle relazioni fra cittadini italiani, residenti largamente negli USA, o in Cina per Tik TOK e Huawei, sono esposti a controlli e ispezioni da parte dei rispettivi governi nazionali.
Una contraddizione che vanifica ogni sforzo per disciplinare su un piede di reciprocità il mercato dei dati a livello globale.
Le norme approvate in sede europea, come il DGPR sui dati oppure l’AI ACT, che mirano a rendere più trasparente le modalità di adozione dei sistemi digitali, in particolare dei nuovi dispositivi di intelligenza artificiale, si riducono a pure petizioni di principio se nell’esercizio concreto delle attività i service provider digitali possono sottrarsi a qualsiasi vincolo giuridico. Non dobbiamo dimenticare cosa accadde nei drammatici mesi della pandemia, quando il nosatro sistema sanitario era in evidente emergenza e i malati morivano per l’impossibilità di arginare il contagio.
In quel frangente tragico , la vera quintessenza dell’emergenza considerata da Carl Schmitt il banco di prova della sovranità di uno Stato, le amministrazioni sanitarie italiane non riuscirono ad organizzare un efficiente servizio di georeferenzazione dei portatori di contagio perchè, appunto, Apple e Google si rifiutarono di rendere i dati in loro possesso (che localizzavano meticolosamente ognuno di noi ai fini di una mappatura dei movimenti di coloro che potevano diffondere il virus). Al contrario, il noto Claud Act, la legge degli Stati uUniti sulla raccolta e gestione dei dati da parte delle piattaforme digitali, impone ad ogni service porovider americano di collaborare attivamente con le autorità di quel paese.
Ora la nazionalità di un sistema che opera in regime di reciprocità di convenzione, per cui Google, attraverso Android, o Telegram sono attivi sul territorio nazionale perché l’Italia autorizza in linea di principio la libera circolazione dei servizi digitali, non può essere legata alla proprietà finanziaria della piattaforma ma alla territorialità in cui opera quella piattaforma. Di conseguenza se un service provider, come appunto le compagnie telefoniche, esercita la propria attività in Italia, raccogliendo e commercializzando dati sensibili dei nostri cittadini, devono inevitabilmente fornire, come appunto Fastweb o Iliad, piena trasparenza alle autorità italiane di contrasto al crimine.
La casistica tende poi ad espandersi con le nuove forme di intelligenza artificiale, dove la pervasività delle applicazioni e la loro personalizzazione permette di ricostruire non solo il dato inerme, ossia la tracciabilità di movimenti o volontà, ma anche il percorso psico culturale che ha portato a quell’atto o quella affermazione.
A questo punto la magistratura potrebbe disporre di piste evolutive lungo le quali si è formata la delibera volontà di un soggetto di compiere un’azione trasgressiva, valutandone la piena consapevolezza e coscienza.
Un nodo questo che dovrebbe far riflettere le nostre istituzioni e le forze politiche che sono alle prese con un testo di regolamentazione dei sistemi di intelligenza artificiale che non dovrebbe ignorare queste incombenze. In questa prospettiva diventa quanto mai utile il meeting che Key4biz ha organizzato sul tema della sovranità digitale a Roma per domani pomeriggio, dove aziende ed istituzioni, fuori da ogni preconcetto ideologico o politico, si confronteranno proprio sugli aspetti concreti di una reale applicazione di questo principio.
Siamo ormai in un campo, potremmo dire parafrasando un noto detto del premier francese Georges Clemenceau, per la guerra e i generali, troppo importante e grave da lasciare ai tecnici, o ancora peggio, ai proprietari.
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