La comunicazione tra Intelligence guerra ibrida e rarefazione del diritto
Source: Redhotcyber
La comunicazione tra Intelligence guerra ibrida e rarefazione del diritto
Autore: Gianluca Tirozzi
La comunicazione come strumento di influenza nei nuovi modelli di conflitto bellico: tra Intelligence, guerra ibrida e rarefazione del Diritto
Il mondo è in guerra, una guerra in cui la narrazione la fa da padrona, dichiarata in modo scenico ed interpretata in modo altrettanto scenico da tutti suoi attori, più o meno influenti sulla scena internazionale. Non manca nulla per la trama di un avvincente romanzo: i buoni, l’Alleanza Atlantica; il cattivo, Vladimir Putin e l’eroe, Zelensky.
Questo è il copione se si guarda a quel conflitto sfruttando un indirizzo IP occidentale, viceversa, se l’indirizzo IP è attestato nella Federazione Russa avremo nella parte del buono un biondo paladino antinazista, protettore dei deboli del Dombas e acerrimo nemico del vizio e della corruzione, la bellicosa America che si avvale dell’Alleanza Atlantica per annichilire il suo avversario di sempre, la Russia, e l’eroica resistenza del popolo russo alla perdizione di un Occidente schiavo di élite malvagie.
Ciò che risulta più difficile distinguere, a prescindere dalla latitudine di rete da cui si guarda il conflitto, è quanto la suggestione mediatica dipinga la realtà e quanto, invece, la realtà riesca a suggestionare il pubblico. Neppure scendere sul campo aiuterebbe, le prospettive sarebbero diverse a seconda di dove e quando ci si confronta con lo scenario. Di certo vi è una verità degli accadimenti indiscutibile, è ad essa che uno sguardo attento dovrebbe mirare ed è proprio su di essa che interviene la comunicazione dell’una e dell’altra parte. Ciò che fa la differenza nell’influenzare il pubblico è la comunicazione di quella verità, talvolta narrata pedissequamente, talaltra stravolta ad arte mediante vere e proprie invenzioni o mistificazioni.
Niente di nuovo, le operazioni di Intelligence fanno questo sin dall’alba di quella che può essere definita la disciplina delle “arti nere”: scienza, analisi, sintesi, inganno, influenza, manipolazione e violazione, in un termine moderno: Intelligence.
Le operazioni di intelligence, la disciplina delle arti nere e l’arte della guerra
I romani definivano l’opera delle spie come l’intus-legere; leggere dentro, ad una storia, come in questo caso, ad un fenomeno, ad un evento, ad un comportamento, agli occhi del proprio interlocutore. Leggere dentro, oltre a ciò che è manifesto in superficie, riuscire a cogliere le dinamiche più profonde e nascoste, anche andando a rubare informazioni in modo fraudolento o finanche violento. E se, dunque, da un lato attraverso l’intelligence si ricerca la verità, per trarne vantaggio, dall’altro si lavora per nasconderla, per non trarne svantaggio.
Se per cercarla, come dicevamo, si può attivare ogni mezzo, dalla menzogna alla suggestione, dalla frode alla vera e propria violenza, gli stessi meccanismi possono essere usati per celare qualcosa: butto giù da un ponte il testimone di uno scomodo affare tanto quanto il raccontare frottole, farlo con così tanta tenacia e convinzione fintanto che le balle diventano per i più granitiche verità. In questa logica, è evidente come tutto sia permesso.
Nell’ambito di questo esame dell’azione d’Intelligence scarsamente politically correct è bene precisare come essa, in una società competitiva, sia uno strumento essenziale per la prosperità e l’autodeterminazione degli Stati. Certamente la narrazione contemporanea di una Intelligence descritta come una sorta di super-polizia non corrisponde alla reale consistenza dello strumento. Se dunque essa è necessaria, e talvolta possa apparire decisamente brutale, è anche vero che non vi possa essere una governance orientata se priva di un simile assetto realmente funzionale. Per tale ragione, l’attività d’Intelligence per poter essere efficace deve esprimere una propria autonomia giudiziaria, attraverso specifiche attribuzioni e scriminanti, ed una propria morale, forte di una radicalizzazione statalista degli operatori, oltre che godere di una reale tutela del segreto, prima, durante e dopo le proprie azioni, anch’essa garantita da un impianto normativo orientato e metodi efficaci di trattamento, transazione e archiviazione delle informazioni.
In un simile quadro, non può essere certamente carente il controllo dell’esecutivo e del potere legislativo, attraverso strumenti giuridici adeguati ed adeguate figure di raccordo tra la politica e l’Intelligence medesima. In questo scenario si dipana l’annosa questione machiavelliana del fine che giustifica i mezzi, decisamente ben assimilata dalle Nazioni dominanti che, pur ostentandola al proprio pubblico (pensiamo a film come Soldado, con Benicio Del Toro) non la incoraggiano nelle realtà satellite. Di qui una comunicazione politica mainstream che sfrutta tesi e antitesi, abilmente orchestrate nella costruzione di narrazioni di volta in volta dedite a specifici obiettivi ed interessi.
Da un lato viene giustificata ogni forma di brutalità per garantire la sicurezza nazionale, attraverso film, fiction, romanzi e discorsi politici, mentre dall’altro si promuove la solidarietà umana, l’uguaglianza e i cosiddetti diritti umani inalienabili dell’uomo. Ed è in questa schizofrenia di posizioni, ormai metabolizzate dalle masse occidentali, che si è evoluta l’arte della guerra e su cui fondano le proprie narrazioni la diplomazia e l’intelligence a seconda dei bisogni cui devono dar soddisfazione. Proprio secondo queste logiche viene imbastita, tanto ad Oriente quanto ad Occidente, la comunicazione dell’attuale conflitto russo-ucraino.
Il gioco delle parti tra comunicazione e propaganda
Nella prima parte del XX secolo, gli eserciti occidentali non hanno esitato a seguire la dottrina avviata tra le guerre mondiali dal generale italiano e aviatore Giulio Douhet, secondo il quale “l’attentato terroristico” era la chiave di una rapida vittoria (Torpey, Jacobson, 2016), una filosofia che ispirò gran parte della tragedia europea dei due conflitti mondiali, trovando la sua apoteosi nella seconda guerra e dunque culminando nel discorso di Himler contro la pietà (Burgio, 2017) e nella bomba sganciata dagli americani su Nagasaki dopo che i giapponesi, sconvolti da “Little Boy” (Vd. Nota 1), avevano già presentato formalmente la propria resa: 186.000 vite incenerite, nella quasi totalità civili.
Evidentemente la cognizione che seminare il terrore tra i civili assume carattere prioritario e non collaterale delle guerre di nuovo corso, ha iniziato già da un pezzo a divenire il sommo principio dell’azione militare, cancellando ogni forma di cavalleria nei ranghi che la guerra la governano e la vedono da lontano.
Furono proprio le atomiche sul Giappone a dare il là alle dinamiche di deterrenza di tutta l’epoca successiva, fino ai giorni nostri. Secondo il quadro di Douhet, il morale delle nazioni è ferito se i civili vengono uccisi in massa. L’ipotesi più contemporanea però circa il comportamento di coloro i cui parenti o concittadini vengono uccisi durante la guerra, tuttavia, è risultato esattamente l’opposto, come dimostra la strenua resistenza ucraina. Ecco che in questo gioco delle parti si inserisce lo strumento della comunicazione e della propaganda tesa a instillare il terrore tra le masse, anestetizzare l’opposizione interna alle scelte dei Governi, a sostenere lo scontro incitando i combattenti (Huntignton, 1996).
In linea con quanto detto si è osservato negli ultimi venti anni un graduale sdoganare, nell’ambito delle cosiddette black ops (Vd. Nota 2) svolte senza formali dichiarazioni di guerra verso uno Stato, di pratiche considerate da sempre criminali ed in violazione del Diritto come lo conosciamo da quando vi è lo Stato Nazione: uccisioni mirate e sequestri di persona.
Oggi la violazione del diritto, contrariamente a come siamo stati abituati dalla retorica diffusa dopo il secondo conflitto mondiale, diviene sistematica nella guerra offensiva contemporanea che forse proprio per questo, per questa sua palese illegalità, diviene bisognevole di giustificazione. E proprio intorno ad un ben preciso frame giustificativo che vengono ricondotte la barbarie e le violazioni del diritto. L’azione deve apparire “giusta” grazie ad una narrazione ben precisa, elemento essenziale nella comunicazione che le parti in conflitto diffondono verso l’esterno, tesa a sedurre il pubblico, trasformando oppositori e osservatori in simpatizzanti, e verso l’interno, confortando quel pubblico e incitandolo a spendersi per il buon esito del conflitto, curando al pari la censura della controparte (Cosentino, 2020).
Ed è proprio la comunicazione l’aspetto che unisce le azioni belliche odierne con il terrorismo del recente passato, inquadrato dopo l’11 settembre come una vera e propria modalità di guerra (Crelinsten, 2002) e le nuove forme di guerra ibrida sviluppate a partire dagli ’60 del novecento.
Agire, comunicare, agire, paiono ripercorrere l’adagio delle Brigate Rosse: prassi, teoria, prassi.
Le uccisioni mirate e le guerre preventive
Si pensi alle uccisioni mirate tipo quelle dei principali leader Jihadisti: Al Zarqawi, Osama Ben Laden, Al Zawahiri, tanto per citarne alcuni. Pianificate in segreto, eseguite in barba ad ogni forma di diritto internazionale e annunciate trionfalmente con conferenze stampa approntate ad hoc. Per poi far seguire approfondimenti giornalistici, documentari e l’immancabile industria dell’intrattenimento (film, fiction e videogame), così da reclutare nuovi aspiranti operatori speciali (o terroristi) e compiere nuove azioni ardite.
Le operazioni mirate di uccisione richiedono spesso l’uso di droni, missili guidati con precisione o, in alcuni casi, dispositivi esplosivi miniaturizzati inseriti nei telefoni cellulari utilizzati dagli obiettivi, evidenziando non solo la supremazia motivazionale del vincitore, presentato come il “giusto”, ma anche la sua proverbiale “intelligenza” alla base del suo predominio tecnologico (Löfflmann, 2015). A volte queste operazioni vengono anche filmate, come fatto sovente dall’Israeli Defense Force (IDF), per trasmettere le immagini come esempi di operazioni riuscite che colpiscono i loro obiettivi senza uccidere i civili (Fisher, 2009). Di tutt’altra pompa è la propaganda allestita in Occidente mediante fiction televisive e industria cinematografica.
Della stessa pasta le logiche comunicative di quelli che siamo stati abituati a definire terroristi. Si pensi ai video Internet di Daesh sulle decapitazioni, in continuità con quanto sdoganato da Ansar al Islam in Iraq nel 2004 con l’esecuzione del ventiduenne americano Nicolas Berg, sono solo l’ennesimo macabro sviluppo di questa evoluzione che oggi passa per la grave violazione della convenzione di Ginevra che vede soldati russi fatti prigionieri da forze di sicurezza Ucraine ed esposti in interviste verosimilmente illegali a meri fini propagandistici.
Pertanto, da entrambi i lati, il ventaglio delle comunicazioni svolte mediante l’uso di quella che la tradizione eversiva nazionale ha definito “propaganda armata” appare decisamente variegato, dalla diffusione del timore nell’avversario alla divulgazione di un’immagine volta a reclutare quanti più combattenti possibili e quant’altro.
In tale quadro, per esempio, le potenze occidentali usano la precisione come un modo per giustificare l’uso della forza nelle guerre combattute su cause dubbie, specialmente nel caso delle guerre preventive. In tale quadro anche il modo di raccontare al pubblico la propria azione si diversifica a seconda della visione dominante nel pubblico di riferimento. Infatti, “uccisioni mirate” è il fraseggio più consensuale impiegato per designare queste operazioni nel mondo anglosassone dove il rapporto tra l’interesse del popolo, dello Stato e la guerra è diretto e assolutamente approvato e condiviso dalla stragrande maggioranza di quelle società. Altri audience, prevalentemente (guarda caso) di nazioni satellite o dominate che dir si voglia, richiedono terminologie addirittura più aggressive come “assassinii mirati” o al contrario più annacquate come, per esempio nel caso dell’Italia, “esecuzioni mirate”. Lo stesso dicasi per l’operazione “speciale” russa lanciata da Putin per “denazificare” l’Ucraina. In quest’ottica si rileva come il Dipartimento di Stato USA ha anche cercato di convincere il pubblico più ampio che le uccisioni mirate sono una risposta legittima ai mali del terrorismo globale.
Si inquadri a questo punto, giuridicamente, la regina delle uccisioni mirate, l’operazione Neptune Spear. Il 02 maggio 2011, in una cittadina di provincia pakistana fino ad allora sconosciuta al mondo, Abbottobad, alle ore 02:00 circa del mattino atterravano (uno in realtà si schiantava urtando un traliccio della luce) due elicotteri invisibili della marina degli Stati Uniti d’America con a bordo organici del Team Six dei Navy Seals e dello Special Operation Group della Cia che davano l’assalto ad un casolare anonimo e fortificato a ridosso della locale accademia di polizia.
Sempre in un’area del territorio pakistano, pochi minuti di volo distante dal sito obiettivo atterrava un elicottero Chinahowk con a bordo il grosso della forza d’assalto. In tutto erano entrati in Pakistan senza autorizzazione tre vettori militari a pala rotante, un commando di 79 uomini e un cane particolarmente aggressivo. Tantomeno i pakistani avevano autorizzato i militari americani a commettere una strage, 5 morti tra cui il nemico pubblico numero uno e capo indiscusso di Al Qaeda Osama Ben Laden, ed il sequestro di ben 17 tra amici e familiari del terrorista. Nell’azione rimaneva gravemente ferito anche un minore.
Dunque, come avvenuto in Siria nella primavera 2018, le operazioni si svolgono a sorpresa, senza alcuna formale dichiarazione di guerra consegnata da ambasciatori a governi o viceversa, senza alcuna autorizzazione ad operare entro i confini di Stati esteri con cui gli Stati Uniti non sono in guerra, come lo Yemen o, appunto, il Pakistan.
Secondo Weber, uno Stato è un’organizzazione che ha il monopolio sull’uso della forza nel proprio territorio (Parsons, 1942). Questa definizione politica dello stato alimenta una visione di sovranità secondo cui, in effetti, nessuno stato o attore privato è autorizzato a fare uso di forza sul territorio di un altro Stato. Nel caso di uccisioni mirate, il governo dello Yemen o del Pakistan può autorizzare segretamente gli Stati Uniti a colpire nel suo territorio, tuttavia, dal punto di vista della sovranità, bisogna differenziare un governo dallo stato, rendendo tale pratica comunque illegittima dal punto di vista dei popoli.
L’aberrazione del diritto prima ancora che della tradizione e della cavalleria ha trasformato rapidamente la pratica del mestiere delle armi e sta cambiando altresì i suoi valori. La prevenzione è diventata una delle principali giustificazioni dell’intervento militare e, più in generale, dell’uso della forza. Se, come visto, vi è una sistematica violazione del diritto nel dichiarare la guerra e nel praticarla dalle grandi potenze anche gli attori militarmente più deboli di quello che è il conflitto asimmetrico contemporaneo, hanno conformato la loro azione al medesimo principio di violazione del diritto, essendo prevalente l’odio per il nemico e la pratica della violenza per il semplice fatto che non vi è alcun settore della società da tutelare dalla stessa.
«Nel ventunesimo secolo, gli ostaggi non vengono trattati umanamente, e non servono più come mezzo per trovare accordi nei conflitti tra coloro che rapiscono soldati e civili e quei paesi da cui provengono i rapiti» (Torpey e Jacobson, 2016).
Case study: l’uccisione di Darya Dugina
Sia le uccisioni mirate che le prese di ostaggi hanno una forte dimensione punitiva e sono probabilmente motivate dalla vendetta quando non configurano meri reati mossi dal lucro. Una conferma di ciò la si ha dall’uccisione di Darya Dugina il 20 agosto 2022, in pieno territorio russo, figlia dell’intellettuale Aleksandr Dugin, definito dai media occidentali come l’ideologo di Putin ma comunque non certo un obbiettivo strategico. La giovane donna sarebbe stata colpita in luogo del padre, da parte di agenti segreti ucraini, riconducibili, secondo lo FSB, al battaglione Azov. Un attacco terroristico in piena regola, dall’alto valore simbolico, una sorta di vendetta, più che un’azione strategica di portata militare. Narrato in occidente anche come un possibile stratagemma sanguinoso dell’Intelligence russa per animare l’opinione pubblica interna forse fiaccata dai troppi caduti.
La possibilità di un conflitto diffuso, ibrido e occulto
Il lungo ragionamento sin qui esposto, a metà tra strada tra la riflessione sociologica e quella giuridico-politologica, dimostra come vi sia una concreta possibilità che il confronto per la libertà in Ucraina possa sconfinare se non in una terza guerra mondiale, di portata inimmaginabile, in un conflitto diffuso per lo più ibrido e occulto capace di sfruttare anche le forme più abiette di scontro come quella terroristica.
Una simile barbarie potrebbe essere, altresì, ispirata e sostenuta da una sempre maggiore perdita di influenza del Diritto sulle relazioni tra i macro attori sociali che paiono invece voler tornare prepotentemente alla legge del più forte. Sembra infatti di assistere inermi alla scomparsa de facto, trasversalmente accettata da tutti gli attori “dominanti”, di qualsiasi forma di aderenza al diritto internazionale e di guerra, volto ad arginare il dilagare della violenza tra le popolazioni inermi, espresse per lo più dai civili ma anche dai militari fatti prigionieri. Una simile inclinazione rappresenta oggi la peggiore delle minacce per il genere umano, specie con all’orizzonte la possibilità di un confronto atomico tra più potenze. Senza rispetto per il diritto non può esserci conservazione della specie!
Note
- “Little Boy” è il nomignolo goliardico data alla bomba H sganciata su Hiroshima.
- La black operations o black ops (in inglese “operazioni nere”) è un’operazione segreta intrapresa da un governo, un’agenzia governativa o un’organizzazione militare la quale, oltre a essere operata in clandestinità, implica eventuali azioni illegali o al limite della legalità secondo il diritto internazionale; infine, la sua realizzazione non è quasi mai imputabile all’organizzazione realmente coinvolta. Quando una black operation comporta un grado significativo di inganno e di dissimulazione di ciò che sta realmente dietro a essa, anche facendo apparire come responsabile di essa qualche altra entità o nazione, è detta false flag (falsa bandiera, poiché batte una bandiera che non è la sua, cioè fa apparire che ad operare sia stato un ente diverso da quello effettivo).
- Art.17 […] Nessuna tortura fisica o morale né coercizione alcuna potrà essere esercitata sui prigionieri di guerra per ottenere da essi informazioni di qualsiasi natura. I prigionieri che rifiuteranno di rispondere non potranno essere né minacciati, né insultati, né esposti ad angherie od a svantaggi di qualsiasi natura. I prigionieri di guerra che, a cagione del loro stato fisico o mentale, si trovino nell’incapacità di indicare la propria identità, saranno affidati al servizio sanitario. L’identità di questi prigionieri sarà accertata con tutti i mezzi possibili, con riserva delle disposizioni del precedente capoverso […]. Viene da pensare che le dichiarazioni fatte dinanzi alle telecamere da parte dei prigionieri russi non abbiano una origine spontanea attese le possibili ripercussioni che le autorità russe, non certi brillanti in quanto a rispetto dei diritti umani, potrebbe fare alle di loro famiglie in patria.
Bibliografia
Burgio, Alberto. Eroici Massacri: la giustificazione degli omicidi di massa sul fronte orientale nella Seconda Guerra mondiale, Mimesis Edizioni, 2017.
Crelinsten, Ronald D. “Analysing terrorism and counter-terrorism: A communication model“. Terrorism and political violence 14.2, pp. 77-122, 2002.
Cosentino, Gabriele. Social media and the post-truth world order. London; Cham: Palgrave Pivot, 2020.
Fischer, Katrin. YouTube-Broadcast yourself!… and your propaganda?: freedom of expression and the new media in armed conflict. Diss. 2009.
Huntignton, Samuel P., The clash of Civilization and the Remaking of the World Order. New York, Simon & Shuster, 1996.
Löfflmann, Georg. “Leading from behind–American Exceptionalism and President Obama’s post-American vision of hegemony“. Geopolitics 20.2, pp. 308-332, 2015.
Parsons, Talcott. “Max Weber and the contemporary political crisis“. The Review of Politics 4.2, pp. 155-172, 1942.
Ti potrebbe anche interessare: Cyberwar, politica e intelligence. Spesso si cammina in un terreno difficile
L’articolo La comunicazione tra Intelligence guerra ibrida e rarefazione del diritto proviene da Red Hot Cyber.